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Unabhängigkeit
09.05.1998
Punto della situazione del 9 maggio 1998
Cari membri, Signore e signori,
Vi do il più cordiale benvenuto alla 13a Assemblea generale ordinaria dell'Azione per una Svizzera neutrale e indipendente (ASNI). Mentre in occasione della nostra prima Assemblea generale i 100 posti a sedere della sala del Bürgerhaus erano sufficienti, quest'anno dobbiamo constatare che anche questa grande sale è da considerarsi ormai piccola. Vi prego di scusare lo scarso posto a disposizione.
Quando a governare sono la mancanza di concetto e la contraddizione
La salvaguardia dell'indipendenza del nostro Paese dei confronti dell'estero, uno dei principali compiti dello Stato che la Costituzione federale conferisce alle autorità federali e al Parlamento, si contraddistingue oggi per la mancanza di concetto e per il disorientamento e, quindi, anche per la sua incertezza. Come spiegare altrimenti quanto segue?
Votando no al SEE, 5 anni fa il popolo si è espresso chiaramente a favore dell'indipendenza e della neutralità del Paese. Sia per il Consiglio federale sia per il Parlamento il mandato era chiaro: dare seguito alla volontà popolare. Il Consiglio federale ha deciso di dare il via a negoziati bilaterali con l'Unione europea per tutelare gli interessi e l'indipendenza del Paese. Ma nel corso dei negoziati il Consiglio federale dichiara che l'obiettivo finale è l'adesione all'UE e non più l'indipendenza del Paese. Ovvio, quindi, che l'Unione europea ne deduca che in occasione dei negoziati bilaterali la Svizzera sia disposta ad accettare tutto ciò che dovrebbe riprendere in caso di adesione all'UE o al SEE - in particolare la libera circolazione delle persone e la politica dei trasporti dell'UE. Non sorprende affatto, quindi, che i negoziati bilaterali si trovino in una posizione di stallo.
Il ministro degli esteri e oggi presidente della Confederazione tiene instancabilmente una conferenza dietro l'altro sull'adesione all'UE diffondendo segnali sbagliati. I negoziati bilaterali sono diventati difficili soprattutto a causa della mancanza di concetto del Consiglio federale. Com'è possibile svolgere negoziati bilaterali quando, in fin dei conti, si vuole il contrario? La mancanza di un concetto ben preciso ha delle conseguenze negative.
Anche il capo della delegazione svizzera addetta ai negoziati, il cui compito è quello di condurre i negoziati, annuncia da un po' di tempo sulla stampa che in fin dei conti la Svizzera dovrebbe aderire all'UE. Ciò lascia intendere ai lettori e alla delegazione comunitaria che i negoziati bilaterali non sono affatto necessari. Non si possono perseguire contemporaneamente due concetti di per sé contraddittori.
Prima delle elezioni del 1995 il Partito democristiano (PDC) aveva dichiarato che prima del 2000 l'adesione all'UE non sarebbe stata affatto un tema. Dopo circa due anni - nel marzo del 1998 - il PDC si dichiara invece disposto ad aderire all'UE. La stampa commenta tale decisione come segue: "In questo modo il PDC va incontro al suo consigliere federale Cotti". Ciò significa in pratica che va incontro allo stesso consigliere federale che dovrebbe però fare il contrario, ovvero condurre i negoziati bilaterali affinché il nostro Paese non debba aderire al SEE e all'UE. Quante sono le persone che il PDC intende servire contemporaneamente?
Il Partito socialista riesce però a fare ancora di meglio: esso intende aderire subito all'UE, un'istituzione che come sappiamo non ha posto per la democrazia diretta. Contemporaneamente promette ai propri elettori - come se fossero tutti imbecilli - che intende estendere la democrazia diretta.
Nel 1995, nel luogo di vacanza di Interlaken, il partito radicale-democratico aveva espresso parere favorevole per un'adesione all'UE. Il 17 aprile 1998 ha poi annunciato che entro fine anno il Consiglio federale deve chiarire "la compatibilità UE delle norme svizzere" e le "ripercussioni di un'adesione all'UE sulla democrazia diretta". Prima si decide, poi, tre anni dopo, si mettono a disposizione le basi necessarie per questa decisione!
Un "club di imperterriti", di cui fanno purtroppo parte alcuni membri dell'UDC, dichiara ora che occorre aderire al SEE poiché non si riesce a trovare una soluzione bilaterale riguardo ai dossier della politica dei trasporti e della libera circolazione dei trasporti. Giusto: se fossimo nel SEE, non avremmo più bisogno di negoziati, farebbe testo la legge dell'UE, ovvero la libera circolazione delle persone e la politica dei trasporti dell'UE. Come si arriva a sottoscrivere un trattato coloniale?
Signore e signori, al momento a tenere banco sono la mancanza di concetto, la contraddizione e le armi a doppio taglio.
Qual è il mandato?
Se si dovesse mettere al centro dell'attenzione il mandato, tutto sarebbe molto semplice. Ma qual è il mandato? La Costituzione federale e il popolo svizzero hanno conferito ripetutamente (SEE, caschi blu, ONU) il mandato di tutelare l'indipendenza e la neutralità. Signore e signori, i nostri politici hanno prestato giuramento al riguardo. Il Governo ha solo due possibilità: accettare questa decisione concretizzandola senza discutere oppure - se non è intenzionato a farlo - dimettersi.
Alla decadenza dell'attuale situazione contribuisce anche un Parlamento che elegge ovviamente solo consiglieri federali che non sono intenzionati a soddisfare tale mandato.
Le conseguenze di una mancata osservazione del mandato
Se non si prende sul serio l'indipendenza, vi saranno conseguenze negative ben oltre l'UE. Non c'è da stupirsi, quindi, che il nostro Paese si opponga in modo così fiacco e indeterminato contro le richieste sfrontate, illegittime e ricattatorie di alcuni ambienti americani. Per poter dar prova di fermezza e di superiorità, per poter tutelare gli interessi della Svizzera, occorre stare dalla parte della Svizzera e dei suoi valori. Se non lo si fa, non si è in grado di soddisfare efficacemente il proprio compito.
Se non si prende più sul serio la neutralità, ci si lascia coinvolgere in tutto; se non si rispetta la democrazia diretta e la volontà popolare, bisogna scusarsi nei confronti dell'estero per le decisioni prese dal popolo.
Poiché la democrazia diretta e la neutralità sono in contrasto con l'integrazione della Svizzera nell'Unione europea, si inizia a ridimensionarle.
Se si ha dubbi sulla sovranità del Paese, non si dispone più delle premesse e della forza necessaria per difendere gli interessi del Paese.
Laddove questi valori non vengono più rispettati, dove non si possiede più la forza di rappresentarli e di sostenerli, un Paese diventa facilmente ricattabile.
Debolezza anche nella difesa del Paese
Purtroppo la mancanza di concezione non riguarda solo singoli settori, ma è visibile dappertutto. In fatto di politica di sicurezza anche il Dipartimento della difesa ha adottato un corso pericoloso che lo impossibilita a difendere i nostri massimi valori, ovvero la libertà, l'indipendenza e la democrazia diretta, contro l'uso della forza da fuori. Anche nel Dipartimento della difesa si dà sempre più la preferenza a presuntuose azioni internazionali piuttosto che all'adempimento del proprio mandato.
La Svizzera nell'anno dell'anniversario
Signore e signori, quest'anno festeggiamo un triplice anniversario:
1648: ovvero 350 anni di staccamento della Svizzera dall'impero germanico e, quindi, 350 anni di sovranità e indipendenza formale della Svizzera
1798: 200 anni di Elvezia e, quindi, libertà e uguaglianza per tutti i cittadini
1848: 150 anni di Stato federale
1648: pace di Vestfalia
350 anni fa, con l'annuncio della pace di Vestfalia, il sindaco di Basilea Johann Rudolf Wettstein ha coronato la propria missione diplomatica riuscendo nel suo intento di far riconoscere all'Europa la sovranità della Svizzera dopo lunghe trattative bilaterali e numerosi colloqui individuali. Per le principali località della Confederazione tale sovranità era valida sin dai tempi delle guerre contro i Germanici del 1499. Nel 1648 tutto il mondo poteva quindi leggere le seguenti parole:
"Ormai l'impero e il mondo intero hanno preso conoscenza del fatto che la Confederazione è libera e che dipende solo da Dio e da se stessa."
Signore e signori, è forse un caso se il Consiglio federale e il Parlamento non vogliono festeggiare il 1648?
Perché la Berna ufficiale non vuole festeggiare i 350 anni dallo staccamento dall'impero germanico, 350 anni di sovranità e 350 anni senza imperatore?
Si teme forse di attirare l'attenzione del popolo svizzero o addirittura degli Stati esteri sulla sovranità della Svizzera?
Si teme forse che gli Stati esteri se la possano prendere con noi?
Consiglio federale e Parlamento si vergognano forse della sovranità della Svizzera?
Forse dovremmo essere contenti che la Svizzera ufficiale taccia in merito a questa ricorrenza. Altrimenti dovremmo assistere che 350 anni dopo il raggiungimento dell'indipendenza della Svizzera il nostro Stato rivolga le proprie scuse ufficiali all'estero per questo "atto ignobile". Non dubito del fatto che esistano persone che considerano il raggiungimento dell'indipendenza come un atto di scarsa solidarietà. Si troverebbero senza dubbio ambienti che, sotto la pressione internazionale, chiederebbero soldi alla Svizzera per aver conseguito tale sovranità e si troverebbero anche politici svizzeri che prometterebbero a tali ambienti il patrimonio nazionale proveniente da ogni genere di fondi e di fondazioni.
1798
200 anni fa le truppe francesi hanno sferrato un colpo mortale contro il nostro Paese caratterizzato allora da una politica opaca, noiosa e ammuffita. Il colpo mortale è stato sferrato contro la vecchia Confederazione in cui una piccola cerchia di aristocratici regnava sui sudditi.
Era spaventoso come i regnanti del 1798 fossero vanitosi, estranei alla realtà, presuntuosi e ottusi; essi si sentivano molto superiori alla massa rappresentata dal popolo. Signore e signori, tali individui dovevano essere sostituiti. Ma come potrete constatare, nessun periodo ci rende immuni da tali politici. Essi esistono anche nei nostri giorni.
Altrimenti come sarebbe possibile, ad esempio, che il consigliere nazionale ginevrino Peter Tschopp, vicepresidente di un partito governativo del nostro Paese, possa scrivere in una "lettera aperta" che considera pericoloso per il nostro Stato il fatto che io abbia distribuito a tutte le economie domestiche del Paese il mio opuscolo "La Svizzera e l'Europa - 5 anni dopo il no al SEE"? Tschopp ha annunciato in questa lettera che mediante un'interpellanza avrebbe garantito, per le questioni politiche, il "monopolio dell'informazione" del Consiglio federale e che avrebbe impedito attraverso una nuova legge tali iniziative prese da "semplici persone private". Il professor Tschopp non si è forse ancora reso conto che il monopolio dell'informazione dello Stato è stato soppresso nel 1798 e che la libertà d'espressione è ancorata nella Costituzione sin dal 1848! Come potete constatare, questi signori stanno per resuscitare, esattamente come nel periodo che ha preceduto il 1798, con l'unica differenza che oggi non portano la parrucche incipriate.
È forse un caso che sono proprio queste persone che vogliono far resuscitare il feudalesimo, ovvero il dominio di una minoranza sulla grande massa, attraverso un'adesione all'UE? Il centralismo burocratico di Bruxelles non significa null'altro che un ritorno dell'Europa a una situazione di politica feudale, ovvero con pochi che prendono le decisioni limitando il diritto di discussione dei cittadini.
1848
Nel 1848 la Svizzera si è dotata con le proprie forze di una nuova forma liberale e democratica: il nostro Paese aveva finalmente trovato il coraggio di creare un caso a parte. Contrariamente alle costituzioni dell'Elvezia (1798), della Mediazione (1803) e della Restaurazione (1814), la Costituzione federale del 1848 è stata creata senza l'ingerenza di potenze straniere, partendo unicamente dalla volontà della maggioranza dei cittadini svizzeri. Dopo aver ceduto per 50 anni alla pressione e agli interessi degli stranieri, nel 1848 ha trovato il coraggio di fare in tutta autonomia e sovranità ciò che le sembrava giusto. Gli altri Paesi europei hanno osservato quest'evoluzione con scetticismo, diffidenza e anche con una pronunciata avversione.
Ma nel 1848 il nostro Paese ne aveva abbastanza delle ingerenze e dei tentativi di ricatto dei Governi esteri. Nella sua qualità di repubblica democratica la Svizzera è rimasta in Europa un caso unico fino al XX secolo. Per quanto riguarda il federalismo, la democrazia diretta, la neutralità e l'autonomia dei comuni, essi sono rimasti casi particolari fino ai nostri giorni! E questo addirittura a livello mondiale.
Signore e signori, chi vuole rinunciare alla sovranità nazionale, tradisce l'idea dello Stato federale del 1848!
Dopo il 1848 la Svizzera è diventata uno dei Paesi più pacifici del mondo. Chi opta per la neutralità e per la non ingerenza e che desidera commerciare con i Paesi di tutto il mondo non è nemmeno tentato di scatenare guerre. Nel 1848 lo Stato federale ha vietato ai Cantoni la stipulazione di alleanze militari e, di lì a poco, ha vietato ai cittadini svizzeri di prestare servizio militare per altri Paesi. Chi intende oggigiorno inviare soldati all'estero senza pensare che possano perdervi la loro vita e senza realizzare che in tal modo si parteggia per qualche potenza estera, tradisce l'idea dello Stato federale del 1848.
Il mandato dell'ASNI
In un'epoca in cui disprezzare l'indipendenza e la neutralità sta andando di moda, l'ASNI è chiamata a una grande responsabilità. Oltre dieci anni fa si è fissata come obiettivo la salvaguardia dell'indipendenza e della sovranità del nostro Paese. All'epoca stava cominciando a manifestarsi il disorientamento della Svizzera.
L'ASNI deve portare a termine un mandato importante. L'ASNI deve battersi per il bene supremo dello Stato. Per far questo deve purtroppo lottare contro le autorità che, in base alla Costituzione, dovrebbero difendere l'indipendenza, l'autonomia e la sicurezza del nostro Paese. È l'ASNI - chi altrimenti? - che deve condurre questa lotta al fronte.
So bene quel che pensate e vi capisco: sono numerose le persone che si disperano per lo schiacciante predominio del Governo, del Parlamento, della stampa, dei media e della burocrazia delle associazioni che seguono tutti la via sbagliata. Di fronte a queste orde che emulano superficialmente una tendenza alla moda, un sentimento d'impotenza e di rassegnazione si impadronisce di vasti strati della popolazione.
Ma se passo in rassegna gli ultimi dieci anni, constato pure una crescente forza da parte nostra:
1. Le nostre valutazioni della situazione e i relativi concetti si sono rivelati fondati. Ecco perché non abbiamo avuto bisogno di riprendere di anno in anno i nostri concetti e le nostre azioni. La valutazione approfondita della situazione, le numerose lotte nelle notti a cavallo fra il 1991 e il 1992 prima del combattimento contro il SEE sono valse la pena, poiché ci hanno permesso di valutare correttamente sia l'UE sia l'evoluzione nel nostro Paese. La decisione secondo cui la libertà, ovvero il diritto all'autodeterminazione e di votare nel proprio Paese, - la democrazia diretta, ovvero il principio di consultare i cittadini anche per votazioni su questioni materiali - e il benessere sono meglio protetti in un piccolo Stato indipendente, neutrale e aperto al mondo come lo è la Svizzera, si dimostra perfettamente fondata. Non è il caso di rimetterla in discussione!
2. Nonostante lo schiacciante predominio di quanti volevano il contrario, i cittadini svizzeri e i Cantoni si sono ripetutamente pronunciati a favore dell'indipendenza e della neutralità. Ciò ha permesso di preservare la Svizzera da errori politici che avrebbero avuto gravi conseguenze.
3. Ma la nostra forza è soprattutto l'impegno dei nostri membri. Si tratta di un vantaggio che abbiamo nei confronti dei nostri avversari, che dispongono dei mezzi necessari, ma che si battono senza il cuore, lo spirito e l'anima, facendo ricorso a termini generici quali "apertura, globalizzazione e solidarietà". Chi nuota con la corrente non ha bisogno di riflettere né di impegnarsi o di lottare. Solo chi pensa e si dimostra critico può resistere a tutto questo. È ovvio, quindi, che chi nuota controcorrente viene escluso e coperto di insulti. Ma è proprio questo a renderci resistenti, indipendenti e forti. Non dimenticate che sono proprio le persone che vanno controcorrente che arrivano alla sorgente!
4. Oggi la nostra situazione di partenza è nettamente migliore rispetto al 1992, poiché siamo meglio organizzati:
L'ASNI conta oggi oltre 30'000 membri. In occasione della lotta al SEE eravamo appena 7'200 persone. Dal solo anno scorso i nostri effettivi sono aumentati del 23%, ovvero di oltre 5'700 membri.
Il nostro fondo di lotta destinato alle votazioni è attualmente dotato di 3,1 milioni di franchi. Ciò permetterà di realizzare senza dubbio qualcosa. Ma non è ancora sufficiente: l'importanza maggiore fa data va all'impegno di tutti i nostri membri in ogni comune, con i conoscenti, sul luogo di lavoro e con gli amici.
Nel frattempo il personale e l'amministrazione del nostro segretariato centrale sono stati rafforzati:
Dal 1° aprile il consigliere nazionale Hans Fehr ha assunto la direzione a tempo pieno succedendo al signor Gartenmann che aveva svolto perfettamente tale funzione dando prova di grande perseveranza nell'ambito di un impiego a metà tempo.
Il signor Gartenmann continuerà a garantire a metà tempo la supplenza di Hans Fehr.
L'anno scorso il nostro sistema informatico è stato potenziato considerevolmente attraverso l'installazione di nuovi computer e nuovi software.
L'anno scorso l'ASNI ha creato anche un proprio sito sull'Internet che permette di contrastare le informazioni unilaterali diffuse dalla stampa.
Tutte queste misure hanno rafforzato considerevolmente la forza di penetrazione dell'ASNI, aspetto questo di primaria importanza per affrontare le lotte che ci riserva il futuro. Dobbiamo prepararci a campagne elettorali difficili che sono di capitale importanza per la salvaguardia dell'indipendenza e della neutralità. Dobbiamo prepararci alle seguenti votazioni: a una votazione sull'UE, a una seconda votazione sul SEE, a un'eventuale votazione in caso di esito insoddisfacente dei negoziati bilaterali, a una nuova votazione sull'ONU, a una modifica della Costituzione e della legislazione che prevede truppe armate all'estero.
Un bagliore all'orizzonte
Signore e signori, la nostra situazione di partenza è migliorata considerevolmente. Fa enormemente piacere constatare come negli ambienti economici non vi sia praticamente più nessuno a favore di un'adesione all'UE. Le persone a capo dell'economia, che nel 1992 e anche dopo avevano considerato economicamente necessaria un'adesione all'UE, annunciano oggi molto apertamente che un'adesione all'UE non rientra in discussione. Essi ammettono pubblicamente che le somme ingenti che vanno da 5 a 7 miliardi di franchi all'anno non sono tollerabili e che un'adesione all'UE non è compatibile con i nostri diritti popolari. In realtà gli ambienti economici si sono resi conto dei vantaggi offerti da una Svizzera indipendente, neutrale, aperta al mondo e situata al di fuori dell'UE. Gli ambienti economici non si impegneranno dunque a favore di un'adesione all'UE. E questo, signore e signori, è un aspetto molto importante: grazie alla votazione sul SEE, grazie al nostro infaticabile impegno a favore dell'indipendenza, un numero crescente di rappresentanti dell'economia ha capito che un'adesione all'UE è una cattiva soluzione e che lo resterà tale. Il tempo ha lavorato a nostro favore.
Conclusione
Signore e signori,
Chi osserva da vicino le discussioni concernenti l'UE l'attitudine sommessa del nostro Governo di fronte ai ricatti che giungono da ambienti americani la leggerezza di cui si dà prova per quanto concerne la Fondazione della solidarietà i numerosi segnali lanciati all'estero per suggerire che riconosciamo le nostre colpe la mancanza di un concetto e il disorientamento manifestati durante i negoziati bilaterali realizza ciò che ho già constatato l'anno scorso e che, purtroppo, vale anche per quest'anno: mai nel corso di questo secolo l'indipendenza, la neutralità e il diritto all'autodeterminazione della Svizzera sono stati minacciati come in questi anni, e questo dall'interno, dal Governo e dal Parlamento.
E noi, signore e signori, dobbiamo opporci con fermezza a questa situazione. Noi, ovvero l'ASNI tutta intera, dobbiamo lottare insieme a quelli che condividono le nostre idee in seno al nostro Paese. Già in sede di campagna elettorale contro il SEE eravamo Davide che affronta Golia. Si tratta dunque di un fatto biblico che un Davide può ogni tanto vincere contro un Golia. Noi abbiamo dalla parte nostra la buona causa e gli argomenti. Ciò mi permette di guardare al futuro con ottimismo!
05.05.1998
Christoph Blocher erläutert seinen ablehnenden Standpunkt zum Bericht der Kommission Brunner
Interview mit der Zürichsee Zeitung vom 5. Mai 1998
Die vom Bundesrat eingesetzte Studienkommission für Strategische Fragen hat am 26. Februar ihren Schlussbericht zur zukünftigen Sicherheitspolitik vorgelegt. Von den 40 Mitgliedern des Gremiums unter dem Vorsitz von Alt-Botschafter Edouard Brunner hat nur ein einziges, nämlich Nationalrat Christoph Blocher (SVP, Herrliberg), dem Bericht nicht zugestimmt. Seine Gegenargumente hat Blocher kürzlich in einer ausführlichen Studie veröffentlicht. Im folgenden Gespräch begründet er seinen ablehnenden Standpunkt.
Interview: Sebastian Leicht
Der Bericht Brunner ist Ihrer Ansicht nach überhaupt nicht zukunftsbezogen. Worin äussert sich das?
Christoph Blocher: Der Bericht Brunner geht von der ersten Hälfte der neunziger Jahre aus. Nach dem Fall der Mauer herrschte viel Idealismus. Er hat es versäumt, die damaligen Machtkonstellationen genau zu untersuchen, und gelangt deshalb zu einem Konzept, das für den Moment vielleicht zwar richtig war, aber nicht für die nächsten 30 Jahre.
Sie sagen nein zu einer "naiven" Sicherheitspolitik, zu "Wichtigtuerei" und "Grossmannssucht". Könnten Sie dafür Beispiele geben?
Blocher: Zuerst ein Beispiel zur "Naivität". Als die Schweiz Mitglied von Partnerschaft für den Frieden wurde, sagte mir der EMD-(heute: VBS-)Vorsteher: "Ich kann doch nicht gegen eine Organisation sein, die für den Frieden eintritt." Das ist naiv. Denn jede militärische Konstellation spricht vom Frieden. Und Partnerschaft für den Frieden ist eine amerikanische Konstruktion mit den Ländern, die nicht in die Nato eintreten können oder wollen. Damit bezwecken die Amerikaner eine Einbindung dieser Staaten in ein Bündnis, das letztlich ihrer eigenen Interessenwahrung dient. Ich bin nicht gegen die Amerikaner, aber es ist naiv, wenn man sagt, die sind für den Frieden, nur weil im Namen der Begriff Frieden vorkommt. Und nun zur "Grossmannssucht". Die Schweiz ist ein Kleinstaat. Militärs haben immer den Drang zu grossen Konstruktionen. Und sie glauben dann, auf der ganzen Welt Einfluss nehmen zu können. Das ist Grossmannssucht eines Kleinstaats. Wir müssen uns bescheiden sagen, für das Stück Land, das wir haben, wollen wir selber sorgen. Und das ist schon sehr anspruchsvoll.
Sie zitieren in Ihrer Studie den Amerikaner Donald Kagan mit den Worten: "Nur eines ist häufiger als die Ankündigung vom Ende des Krieges: der Krieg selbst." Zweifeln Sie an der Fähigkeit internationaler Organisationen wie etwa der Nato, den Frieden zu erhalten?
Blocher: Dass nach dem Zweiten Weltkrieg der Frieden Bestand hatte, beruht in erster Linie auf dem "Gleichgewicht des Schreckens". Wenn der Osten drohte, musste der Westen ein Gegengewicht schaffen. Ich bin gewiss kein Gegner der Nato. Aber heute hat die Organisation eine andere Funktion. Sie ist ein Instrument, um weltweit die (amerikanischen) Interessen zu wahren, und sie steht voll und ganz unter amerikanischer Schirmherrschaft. Ich kritisiere die Nato nicht, aber es wäre falsch, wenn die Schweiz ihr beitreten würde. Der Frieden ist eben mehr als kein Krieg.
Sie betonen zu Recht, dass sich die Geschichte nicht wiederhole. Hingegen befürchten Sie neue Varianten von kriegerischen Auseinandersetzungen. Womit muss in Zukunft in der Schweiz gerechnet werden?
Blocher: Im Moment sehe ich keinen Staat, der die Freiheit und Unabhängigkeit der Schweiz mit Waffengewalt bedroht. Aber es gibt ganz neue Formen. Etwa die Globalisierung, die nicht nur die Durchlässigkeit der Grenzen für Waren und Güter ermöglicht, sondern auch den Informationsfluss fördert. Lokale Konflikte können zu grossen Konflikten werden. Ich erinnere etwa an die "Schurkenstaaten" - der Irak ist ein typisches Beispiel. Dann gibt es heute anspruchsvolle Formen der Kriegführung wie den Informationskrieg (elektronische Kriegführung, Ausfall der Computer etc.). Ich erwähne im weiteren bürgerkriegsähnliche Wirren, die vor allem durch Migration begünstigt werden. Auf diesen sogenannten primitiven Krieg sind wir relativ schlecht vorbereitet. Schliesslich wären die möglichen Massenvernichtungswaffen - biologische Waffen etwa - zu nennen. Deshalb muss eine neue Armee gegen diese Bedrohungen eingesetzt werden können. Das braucht auf der einen Seite eine relativ kleine, hoch technisierte Armee, was den Informationskrieg anbelangt, und es bedingt anderseits eine Milizarmee mit grossen Beständen für den akuten Fall. Und nicht vergessen werden darf der Schutz der Zivilbevölkerung.
In der Nato geht es, wie Sie sagten, nicht mehr in erster Linie um die gemeinsame Verteidigung Europas, sondern um die Verteidigung gemeinsamer Interessen unter amerikanischer Führung. Diese "pax americana" ist Ihnen offensichtlich nicht ganz geheuer. Warum?
Blocher: Man muss sehen, dass Amerika für die nächste Zeit die einzige Weltmacht ist, wenn sie auch nicht unangefochten bleiben wird. Aber es ist völlig klar: Amerika verteidigt seine ureigenen Interessen. Es ist das Recht und die Pflicht eines Staates, dies zu tun. Ein Kleinstaat muss jedoch darauf achten, dass er nicht von einer solchen Macht abhängig wird, obwohl wir etwa während des kalten Krieges den Amerikanern gewiss näher standen als den Russen.
Sie sind davon überzeugt, dass die Welt wieder in den überwunden geglaubten Zustand der Kanonenbootdiplomatie zurückgefallen ist. Eine Einbindung in supranationale Organisationen wie Nato oder EU sei aber nicht zu empfehlen, weil man sonst in "fremde Händel" hineingezogen werde. Welche Folgerungen für unsere Sicherheitspolitik ziehen Sie daraus?
Blocher: Ich habe eine grundsätzliche Skepsis gegenüber Grossorganisationen. In der Regel ist die Fassade solcher Gebilde eindrücklicher als das, was sich dahinter verbirgt. Das gilt übrigens auch für die Wirtschaft. Natürlich kann es verteidigungs-politisch von Vorteil sein, einem Militärbündnis anzugehören, weil wir annehmen dürfen, dass uns die andern im Falle eines Angriffs helfen. Dafür wird aber die Gefahr, dass man in Auseinandersetzungen hineingezogen wird, grösser. Darum hat die Schweiz immer einen anderen Weg gewählt. Nämlich: Dafür sorgen, dass man nicht in Auseinandersetzungen hineingezogen wird, indem man nicht Partei ergreift. Das heisst Neutralität. Für diese Konzeption nämlich dass Stillesitzen (Neutralität) einen grösseren Schutz für einen Kleinstaat gewährt als ein Bündnis spricht zumindest die Erfahrung: Es gibt kein Land, das es fertig gebracht hat, 200 Jahre lang keinen Krieg zu haben, obwohl dieser Staat sich mitten in den blutigsten Auseinandersetzungen befand. Und ich glaube, gerade gegen mögliche moderne Kriege ist Neutralität von allergrösster Bedeutung.
Die humanitäre Intervention ist Ihrer Ansicht nach ein Widerspruch in sich selbst. Sie zitieren in Ihrer Studie Günther Gillessen, der kurz und bündig sagt: "Wer schiesst, wird automatisch Partei." Was heisst das für die schweizerische Sicherheitspolitik?
Blocher: In der amerikanischen strategischen Literatur wird heute sachlich festgehalten, entweder handle es sich um bewaffnete Intervention und damit Parteinahme oder um einen humanitären Einsatz, also Hilfe. Eine Verbindung von beidem ist unmöglich. Das weiss die Schweiz schon lange. Das Rote Kreuz basiert erstens auf der Nicht-Bewaffnung und zweitens auf der strengen Neutralität. Man leistet Hilfe ungeachtet der Herkunft des Hilfesuchenden. Und glaubwürdig sind Sie nur, wenn Sie unbewaffnet sind. Das heisst für mich, für derartige Einsätze im Ausland kommen nur zwei Organisationen in Frage, nämlich einerseits das Rote Kreuz und anderseits ein (ausgebautes) Katastrophenhilfekorps. Und wenn der Einsatz gefährdet erscheint, muss man sich entweder unter den Schutz von Interventionstruppen begeben oder sich zurückziehen. Nachzulesen, wie gesagt, in der aktuellen amerikanischen strategischen Literatur.
Sie machen einen Unterschied zwischen der Neutralität, wie sie im Zweiten Weltkrieg und während der Zeit des kalten Krieges Sinn machte, und einer "Neutralität von morgen". Wie müsste denn Neutralität am Ende dieses Jahrhunderts gehandhabt werden, um als diplomatisches Mittel wirksam zu sein?
Blocher: Was heisst denn eigentlich Neutralität? Neutralität bedeutet, sich draussen zu halten aus internationalen Konflikten. Im Zweiten Weltkrieg standen wir zwischen den beiden Kriegsparteien. Solche Machtblöcke existieren heute in dieser Form nicht mehr. Sich draussen halten aber gilt nach wie vor. Und das "dauernd neutral sein" ist von allergrösster Bedeutung. Sonst werden Sie nämlich zum Opportunisten und können die Neutralität nicht mehr als diplomatisches Mittel einsetzen. Wenn ein Staat nur dann neutral ist, wenn es ihm gerade nützt, dann ist er nicht mehr glaubwürdig. Eine dauernde Neutralität ist auch heute noch von Bedeutung. Ich nehme das Beispiel Irak. Wenn wir uns nicht in die Front gegen Sadam Hussein einreihen, heisst das doch nichts anderes, als dass es noch einen gibt, der ausserhalb steht und seine guten Dienste anbietet sowie humanitäre Hilfe leistet und dabei glaubwürdig ist. Und das ist ein modernes Verständnis von Neutralität, auch wenn die Mächtekonstellation heute eine andere ist. Der Grundsatz hingegen ist alt und bewährt. Es gab im Übrigen immer Zeiten, in denen führende Kreise in diesem Lande die Neutralität abgelehnt haben. Sie sind schneller bereit, die Neutralität abzuschaffen, als das Volk, weil dieses vor der jeweiligen internationalen Mächtekonstellation logischerweise mehr Angst hat als jene Kreise.
Worin sehen Sie selbst den Sinn ihres Beitrags an die Diskussion über die schweizerische Sicherheitspolitik der Zukunft?
Blocher: Selbstverständlich ist es nicht damit getan, zu sagen, dieses oder jenes Resultat kann ich nicht akzeptieren. Vielmehr muss ich sagen, welchen Schlussfolgerungen ich zustimmen kann. Meine Studie sagt ja zu einer Sicherheitspolitik, welche die Werte unseres Landes zu schützen vermag und glaubwürdig ist. Hingegen sagt sie nein zu einer abenteuerlichen Sicherheitspolitik. Wenn Sie auf der Linie der Kommissionsmehrheit liegen, brauchen Sie es nicht zu begründen. Wenn Sie aber einen gegenteiligen Standpunkt einnehmen, müssen Sie ihn sehr wohl erläutern. Im Übrigen ist es der Sache auch nicht förderlich, wenn sozusagen eine Einheitsmeinung vorherrscht. Denn die Demokratie lebt ja vom Austausch der Argumente, von der Diskussion verschiedener Sichtweisen. Und schliesslich: Wieviel Unheil ist im Laufe der Geschichte angerichtet worden, weil sehr viele Menschen einfach kritiklos einer Sache hinterher gerannt sind und zu wenige hingestanden sind und eine gegenteilige Meinung vertreten haben! Eine Meinung ist auch dann wertvoll, wenn sie nicht ganz richtig sein sollte.
23.04.1998
Christoph Blocher sieht im Bericht der Kommission Brunner ein Dokument der "Kollaborationselite"
Interview mit der "Weltwoche" vom 23. April 1998
Interview: Urs Paul Engeler
Was würde die Schweiz nur ohne Ihre Gegendarstellungen machen, Herr Blocher? Vier Monate nach dem Grossversand der Broschüre über den Nutzen des EWR-Neins verbreiten Sie den Gegenrapport zum Bericht der Kommission Brunner.
Christoph Blocher: Ich fühle mich verpflichtet, immer dann einzugreifen, wenn in der Politik Orientierungs- und Konzeptlosigkeit überhand nehmen.
Was kostet Sie Ihr Leitfaden?
Blocher: Diesmal geht es nicht um eine Schrift an alle Haushaltungen, sondern lediglich um 50 000. Kosten und Vertrieb laufen über die Aktion für eine unabhängige und neutrale Schweiz (Auns).
Wer hat Ihr Papier tatsächlich verfasst?
Blocher: Ich bin der Verfasser und trage die Verantwortung dafür. Zunächst hatte ich eineinhalb Jahre in dieser Kommission Brunner aktiv mitgearbeitet. Dann habe ich ein Team von acht Personen - Offiziere, Historiker, Soziologen, Ökonomen - gefunden, die Zeit und Kraft hatten, die Fragen der künftigen Strategie zu vertiefen und mit mir intensiv zu diskutieren.
Wer steht hinter Ihnen?
Blocher: Ich brauche keine Hintermänner.
Was hat Ihre Privatgruppe den einundvierzig Mitgliedern der Kommission Brunner voraus, die den Bericht mittragen?
Blocher: Das Brunner-Papier liegt auf der heute modischen Linie, die von den Worthülsen "Öffnung, Internationalisierung, Globalisierung" geprägt ist. Das war die gar nicht hinterfragte Ausgangslage der Debatten der Kommission, nicht ihr Ergebnis. Ebenso dient es natürlich den in Bern gepflegten politischen (nicht sicherheitspolitischen) Zielen wie EU- oder Uno-Beitritt, was dem Gros der Kommission ebenfalls sehr behagte. Mit künftiger Verteidigung des Landes jedoch hat der Bericht wenig zu tun.
Sie sprechen nun von einer "Kollaborationselite". Das geht weiter als Ihre bisherige Verhöhnung der "classe politique".
Blocher: Es geht beide Male ums gleiche: "Classe", wo keine sein dürfte. Es gibt eine führende Schicht, die eine ganz andere Interessenlage hat als das breite Volk: Sie orientiert sich am Grossräumigen, am Unbegrenzten, an Macht, vielen Kulissen und wenig Verantwortung. Diejenigen aber, die von diesen führenden Leuten abhängen, zielen im Gegenteil auf Begrenzung der Macht.
Die Platte "Das Volk ist gut, die Politiker sind eigensüchtig" ist etwas gar alt.
Blocher: Die Gefahr des Machtmissbrauchs liegt bei den Politikern. Nehmen wir ein aktuelles Beispiel mit Symbolcharakter: Wer hat die Agenten des israelischen Geheimdienstes ertappt? Eine wachsame Hausfrau. Wer hat uns über den Fall informiert? Israelische Quellen. Unsere Behörden, die bis auf einen alle Täter haben laufen lassen, wollten den Fall vertuschen.
Vor Jahren propagierten Sie den Beitritt der Schweiz zur amerikanischen Freihandelszone. Nun warnen Sie vor einer "pax americana". Warum diese Wende?
Blocher: Das ist keine Wende. Ich schätze die USA weiterhin und trete auch für ein Freihandelsabkommen ein. Doch ich will mich - bei aller Sympathie für das liberale Land, das uns politisch nahesteht - unter keinen Umständen in die Eigeninteressen dieser Weltmacht einbinden lassen.
Glauben Sie wirklich, was Sie schreiben? Zum Beispiel: "Es gibt einen einzigen Sonderfall gelungenen Friedens: den Sonderfall Schweiz"?
Blocher: Ich kenne kein anderes Land, das 150 Jahre lang keinen Krieg führen musste - und das mitten in den blutigsten Auseinandersetzungen mit zwei Weltkriegen!
Das ist Ihr Denkfehler: Kriege betreffen alle - auch die, die selbst nicht mit den Waffen fuchteln.
Blocher: Die Neutralität wird derzeit nicht von aussen angegriffen, sondern von innen her in Frage gestellt. Sie hat sich als Mittel bewährt, einen Kleinstaat aus Auseinandersetzungen herauszuhalten.
Nur auf Zeit. Jetzt läuft als späte Quittung für die Neutralität im Zweiten Weltkrieg der kleine Handelskrieg mit verschiedenen amerikanischen Organisationen.
Blocher: Das ist ein Nebenschauplatz: Es geht nicht um Krieg zwischen Nationen, sondern es gibt ein Gezerre um Geld. Schuld an dieser Entwicklung sind ohnehin die Kreise im Innern, die mit Selbstbezichtigungen den Geldforderungen und Erpressungen den Weg geebnet haben. Man kann ja nur eine schwache Regierung erpressen.
Und mit diesem schwach geführten Land wollen Sie den Alleingang wagen?
Blocher: Noch gefährlicher wäre es, mit Regierungsschwäche an einem militärischen Pakt teilzunehmen! Von Zerfallserscheinungen geprägt ist allein die Führung des Landes, etwa wenn Bundesrat Flavio Cotti sogar Edgar Bronfman, dem Präsidenten des Jüdischen Weltkongresses, privat seine Aufwartung macht. Die Basis hingegen ist im Ganzen solide; und die Wirtschaft läuft gut.
Nicht einmal mit den teuren F/A-18 ist der Luftraum der Schweiz vollständig zu schützen. Wieviel soll Ihre autonome Sicherheit kosten? Welches Konzept von Armee folgt daraus?
Blocher: Noch nie konnte sich ein Land allein oder in einem Militärbündnis gegen alles, was nur erdenklich ist, verteidigen. Das wird auch in Zukunft so sein. Es reicht, wenn wir gegen die wahrscheinlichsten Gefahren geschützt sind. Das kann man in Eigenregie effektiver und billiger tun als in internationalen Verbänden. Neue Bedrohungen werden der Informationskrieg sein, der mit einer kleinen Gruppe von Spezialisten geführt werden muss, oder importierte Bürgerkriege - zum Beispiel zwischen rivalisierenden Ausländergruppen -, für die ortskundige und ausgebildete Milizsoldaten eingesetzt werden sollen.
Im Ernst: Bürgersoldaten gegen Kurden und Türken, die sich in Schweizer Städten bekämpfen?
Blocher: Ja, sie müssen nur geschult werden, auch im Gebrauch von nichttödlichen Waffen.
Wie wollen Sie Ihre Sicherheitskonzeption umsetzen? Im Fall der Partnerschaft für den Frieden haben Sie nach anfänglicher Generalopposition klein beigegeben.
Blocher: Ich bin unterlegen: Der Bundesrat hat in eigener Kompetenz entschieden. Für bewaffnete Interventionstruppen im Ausland oder einen Nato-Beitritt müssen die Behörden durch das Nadelöhr von Volksabstimmungen. Da werden sie mit Sicherheit scheitern wie schon mit der Blauhelm-Vorlage. Auch die Frage eines Uno-Beitrittes wurde ja bereits durchgespielt.
Sie haben eine Volksinitiative zur konkreten Fixierung und Umschreibung der Neutralität in der Verfassung angekündigt. Ist das Projekt still gestorben?
Blocher: Nicht angekündigt, aber genau geprüft. Das Problem ist die Handhabung eines solchen Artikels, solange wir keine Verfassungs-Gerichtsbarkeit kennen und solange der Bundesrat alles Mögliche als mit der Neutralität vereinbar erklären kann. Kommt dazu, dass eine solche Bestimmung im Kriegsfall die Handlungsfähigkeit einschränkt.
Es ist doch so, dass Sie grosse Schwierigkeiten haben, die Neutralität positiv und konkret zu umschreiben. Es ist einfacher, sie taktisch von Fall zu Fall als defensives Instrument politisch-ökonomischer Schlaumeierei einzusetzen.
Blocher: Neutralität ist Stillesitzen, konsequente Nichteinmischung in fremde Angelegenheiten. Das braucht Kraft und Klugheit.
Wenn der Ausgang der Debatte so klar ist wie die Abstimmungen über Uno-Beitritt oder Blauhelme, so erstaunt Ihre Hektik.
Blocher: Die Gegenseite macht auf fragwürdige Weise mobil. Bundesrat Adolf Ogi behauptet, der Bericht befinde sich in der Vernehmlassung, bevor er konkretisiert und umgesetzt werde. In Tat und Wahrheit wird er auf militärischen Kursen bereits als neue Doktrin doziert: Brigadier Peter Arbenz und ausländische Offiziere treten referierenderweise auf und werben für Nato-Annäherung, für EU-Beitritt und Interventionstruppen. Das ist eine unzulässige Verpolitisierung von Armeekursen. Es tritt deutlich zutage, dass in Tat und Wahrheit nicht die Kommission den Bericht verfasst hat, sondern das VBS selber. Indoktrinierung in Truppendiensten ist ein klarer Missbrauch der Kommandogewalt und wäre eigentlich strafrechtlich zu ahnden. Ich selber habe mich als Truppenkommandant seinerzeit geweigert, in Truppenkursen und vor Soldaten gegen die Initiative zur Abschaffung der Armee zu werben. Politik gehört nicht in die Armee!
01.04.1998
Strategic study report on the redevelopment of Swiss security policy, April 1998
01.04.1998
Rapport d'étude stratégique, avril 1998